“C’erano bombe giorno e notte, carri armati per strada”. Ha il viso segnato dalla stanchezza, ancora fatica a parlare quando ripensa alle sirene e alle urla che l’hanno svegliata la mattina che Kiev, la sua città, è stata bombardata. Ha detto ai genitori che non poteva più sopportare quella paura: è un’ossessione che ancora la immobilizza, anche adesso che è in salvo.
È scappata il 26 febbraio, portando con sé qualche vestito, delle fotografie e la sua gatta, Musa. Nataliia Lyha ha 26 anni, lavorava in un call center, viveva con sua madre e suo padre nella capitale ucraina e ora è sulla banchina della stazione ferroviaria di Przemyśl, in Polonia. Ci è arrivata prendendo tre treni che hanno percorso i cinquecento chilometri che separano la capitale ucraina dal confine polacco.
“Erano pieni di persone, di bambini, di famiglie. Sono scioccata”, racconta. Il suo fidanzato è in Crimea e sta cercando di raggiungerla, vorrebbero andare insieme in Germania per trovare un po’ di pace. Ha una sciarpa al collo e uno scaldaorecchie per ripararsi dal freddo, mentre le temperature stanno scendendo sotto lo zero e al valico di confine sono caduti i primi fiocchi di neve. Sono quasi tutte donne le passeggere scese dal treno che collega Leopoli a Cracovia, alcune arrivano da Kiev e sono in viaggio da giorni, sono accalcate sulla banchina: c’è un via vai di volontari polacchi, coordinati dai vigili del fuoco e dall’esercito che distribuiscono cibo, bevande calde, vestiti, organizzano l’accoglienza e gli spostamenti.
Gli aiuti arrivano da tutta la Polonia. Una donna ha un cartello in mano, con una scritta in ucraino: “Offro ospitalità a otto persone a casa mia”. Nataliia Lyha le si avvicina, le chiede aiuto. Si chiama Ludmilla Kolosowa, è ucraina, ma vive a Katowice, a quattro ore di macchina dal confine. È venuta per dare ospitalità ai profughi: “Ho un figlio che sta combattendo a Odessa, ho paura per lui, sono qui per dare una mano, offrire da dormire è l’unica cosa che posso fare”. Lyha con la sua gatta saranno ospitate da Ludmilla Kolosowa. “Per un paio di giorni potrò riposare, poi vedremo cosa fare”, afferma Lyha.
Fino a pochi giorni, fa la maggior parte di noi ha conosciuto la realtà di chi fugge da guerre e miseria per cercare un futuro vedendo solo una delle tappe finali di un percorso di perdita, le cui cause, seppur note sono spesso avvertite come lontane da noi, come qualcosa che, seppur ci tocca, avvertiamo come un rischio per noi remoto o addirittura impossibile. Leggendo questa storia, come tante altre che leggiamo ed ascoltiamo in questi giorni, vediamo drammaticamente, con i nostri occhi, come nasce un profugo; come ci si può ritrovare, da un giorno all’altro, a perdere tutto, legami, affetti, beni, terra, futuro. Un rischio che oggi sentiamo vicino, nostro, e spinge anche chi fino a pochi giorni fa aveva eretto muri ad aprire le porte, perché quel futuro può essere anche il nostro. Tutto questo ci interroga su cosa possiamo dire e fare noi oggi.